mercoledì 16 settembre 2015

ACCETTA IL CONSIGLIO..GUARDATI LOUIE


Sappiamo benissimo quanto sia difficile, ogni settembre, ritornare alla vita di ogni giorno. Non importa se siete stati in vacanza un mese oppure tre giorni. Settembre è il mese dove tutto ricomincia. SMOKING è dalla vostra parte e vuole aiutarvi a rimettervi in carreggiata ricominciando, dopo mesi di silenzio, con leggerezza.
Come ogni settembre ci si ritrova a pensare alla propria vita e alle proprie possibilità “Settembre è il mese del ripensamento” diceva qualcuno in una canzone. E io penso e ripenso, e mi struggo e non dormo : che serie tv inizio?
Se anche voi avete questi dubbi che vi divorano, SMOKING, ha il titolo che fa per voi : LOUIE

Innanzitutto LOUIE è una serie comedy che racconta le vicende, piuttosto autobiografiche, di Louis C.K celebre autore statunitense di stand-up comedy. C.K vive la sua vita come un comico di medio successo a New York. È divorziato, ha due figlie, ha un rapporto complesso con le donne ed è sovrappeso. Tutto qui? Assolutamente no. Il totale è molto di più della somma delle parti.
Per girare la puntata pilota Louis C.K ha accettato un budget molto ristretto ( per una produzione americana) pur di poter avere completa libertà. Egli è, infatti, l'unico regista e l'unico sceneggiatore di tutta la serie, oltre che ovviamente il protagonista.
In ogni stagione, sono arrivati già alla quinta e la sesta è in produzione, la comicità di LOUIE raggiunge nuovi livelli sempre più estremi e sempre più inediti. Ogni nuova stagione della serie è accompagnata da sempre più grandi guest-star e da una gestione sempre più schizofrenica dei tempi comici che, proseguendo con le puntate, perdono sempre più i tratti semplicemente politicamente scorretti, peculiari di Louis C.K, per raggiungere apici di tragicità comica finora inesplorata; quantomeno in un format di questo tipo. Spesso le puntate iniziano con alcuni pezzi di stand-up comedy dello stesso Louie che abbozzano il tema della puntata, quasi a volerci mostrare come il processo di creazione del comico tragga il proprio materiale dall'esperienza quotidiana. Un altro aspetto molto interessante di questo sdoppiamento è che noi siamo in grado di vedere ciò che al pubblico degli stand up di Louis C.K. è negato: cosa accade quando l'attore scende dal palco. Possiamo immergerci nel lato umano del clown che si rivela inevitabilmente colmo di ansie e tristezza.
Il continuo mutare del registro narrativo, dal comico al drammatico, crea un nuovo linguaggio attraverso il quale Louis C.K non solo ci parla di sè e dei suoi problemi ma analizza, come ogni vero comico dovrebbe fare, le contraddizioni della società radicalizzandole attraverso la creazione di situazioni grottesche e personaggi stravaganti.
Non pensate di farvi solo delle grasse risate. Alcune puntate vi lasceranno con un retrogusto amaro che vi sorprenderà soprattutto perchè non avreste mai pensato che quel ciccione dai capelli rossi fosse davvero così bravo.



Tralasciando quindi lo sproloquio dal quale mi sono fatto prendere nelle righe precedenti; perchè quindi dovreste guardare Louie? Fa RIDERE; nessuno vi spoilererà il finale; avrete Ricky Gervais come medico; ogni stagione è meglio della precedente; è indie; è “qualcosa di completamente diverso”; e poi, soprattutto, “accetta il consiglio...per questa volta”

"Comedy isn't polite and it isn't correct and it isn't accurate, even. It's just a mess. So that's the way that I approach it." 

Louis C. K.




mercoledì 22 luglio 2015

QUALCUNO ERA COMUNISTA


Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza[...]”
Il NO che il popolo greco ha urlato in faccia ai burocrati dell'Unione Europea ha fatto emozionare molti nostalgici delle rivoluzioni. Il carro dei vincitori è stato preso d'assalto. Giornalisti d'avanguardia sprecavano paragoni tra Tsipras e Leonida, tra Varoufakis e Pericle. Il momento sembrava adatto per la dimostrazione che può esistere un altro modo di stare in Europa; tutti insieme. La sinistra europea e la democrazia sono parse, per un breve momento, rinascere dalle proprie ceneri.
Ma come spesso accade ai carri, quando sono in troppi a salirci sopra, o non vanno da nessuna parte, oppure si ribaltano. E così è stato per il carro Syriza. È bastata una settimana, molto meno in realtà, per capire che il referendum greco non avrebbe cambiato assolutamente nulla dei rapporti di potere all'interno dell'Europa.
Il NO espresso con così grande decisione da parte dei greci avrebbe concesso il potere alla Grecia di trattare da pari, come uno Stato sovrano, con il consiglio europeo. Questo non è successo, anzi, grazie al referendum il presidente Tsipras si sente legittimato a rimanere al governo anche quando è ovvio che se si chiedesse nuovamente il parere del popolo sulle misure adottate l'altra notte, i greci si esprimerebbero ancora negativamente.
Se qualcuno necessitasse ancora di un'ennesima prova, il referendum greco probabilmente è ciò di cui aveva bisogno. La Sinistra in Europa non esiste più. Da molti anni ormai si può constatare una sempre maggiore marginalizzazione della Sinistra all'interno dell'orizzonte politico europeo. La mancanza di punti di riferimento politici è evidente anche quando si considera l'entusiasmo con cui i partiti o gli pseudomovimenti riformisti vengono accolti ogni qualvolta si presentino nel panorama europeo. È l'abbandono d'ideale che permette, in Grecia, a Syriza di stare al governo insieme all'estrema Destra. È il nostalgico ricordo di qualcosa che non esiste più che ci ha fatto dimenticare che il No greco fosse dovuto alla disperazione più che alla rivolta e come, soprattutto fosse privo di un contenuto propositivo. Dietro al No non vi era nessun progetto politico. Di fronte ad una punizione sicura il popolo greco ha preferito scegliere un salto nel vuoto. Scelta che, come sappiamo, non ha influito minimamente sulle trattative tra la Grecia e l'Europa.


Questo abbandono del campo da parte della Sinistra non è dovuto, semplicemente, all'avanzare della Destra, anzi. La Sinistra ha autonomamente deciso di rinunciare a qualsiasi battaglia politica che abbia come obiettivo dichiarato il sistema del mercato. Con l'avanzare del neoliberalismo la politica ha rinunciato al proprio ruolo divenendo l'esecutrice materiale delle istanze neoliberiste. Questo è avvenuto sia a destra come a sinistra, con la differenza che, nel primo caso, è stato possibile consolidarsi intorno ad un orizzonte reazionario e conservatore; nel secondo invece senza più lo spazio di discussione sul “capitale”, sulle forme di un economia più equa, la Sinistra si è squagliata, inesorabilmente, in un liquame di pseudo battaglie e ideali di cui vergognarsi.
Questo è esattamente ciò che è successo in Grecia. Chi pensava che Tsipras avrebbe rovesciato il tavolo delle trattative è rimasto deluso e, oltretutto, è stato costretto ad osservare ancora una volta la Grecia scavarsi la propria fossa, sempre più fonda, intrappolandosi per altri anni in debiti che non riuscirà mai a pagare.
La sinistra è morta e non risorgerà fino alla prossima catastrofe, fino a che qualcuno sia disposto a correre il rischio non solo di affrontarla, ma anche di provocarla, questa catastrofe. Chi si proclama di Sinistra perchè tollerante con gli immigrati, favorevole al matrimonio omosessuale o alla liberalizzazione delle droghe e della prostituzione non ha capito che non basta. Questa è solo la punta dell'iceberg; un iceberg fatto di lotta e di rivolta, sul rifiuto di qualsiasi compromesso e sulla capacità di immaginare, e di credere, in un futuro migliore.

Ho iniziato questo post con una citazione di Fabrizio De Andrè, che così continua “[...] però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”



“Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una.
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare…come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito.Due miserie in un corpo solo. “ Il Signor G.

venerdì 3 luglio 2015

IL RAZZISMO NON INVECCHIA

Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. [...] Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.[...] La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione” e ancora “ Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è che non ne riesci a trovare uno che sia onesto. “


Queste sono le parole spese dal Segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, riguardo i migranti e i rom, all'ultimo comizio per le elezioni regionali di Genova.
Sono parole che mi sento di condividere in pieno. È impossibile negare che l'enorme numero di persone che si sta riversando sulle nostre coste rappresenti un pericolo per l'Italia intera. Non soltanto continuiamo, infatti, a mettere a rischio la nostra salute. Con questa invasione mettiamo in gioco la nostra sicurezza e, ovviamente, la nostra identità che queste persone non accettano, ma anzi vogliono cambiare. Se non credete alle mie parole è forse più semplice comprendere la realtà attraverso alcuni dati: il 40% degli stranieri rinchiusi nelle carceri italiane è di provenienza del Nord Africa e la maggior parte di loro è in cella per reati gravi. La violenza sembra esser parte integrante di queste popolazioni. Queste persone vengono nel nostro paese perché sanno che qui potranno trovare aiuto e sostegno da parte dello Stato senza che diano in cambio nulla. Anzi, ne approfittano per rubare, stuprare e aggredire rendendo insicure le nostre strade.


Prima di essere invitato a Pontida o comparire sulla prima pagina de Il Giornale è meglio che mi fermi qui. Tutto ciò che avete letto fin'ora è falso, almeno in parte. Le parole citate non sono di Matteo Salvini ma sono tratte dalla relazione del 1912 dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano. Chi sono quindi quelle persone dedite allo stupro, che chiedono l'elemosina che mettono a rischio la sicurezza del popolo americano? Siamo noi. Il mio bisnonno e il tuo. Gli “Italiani brava gente, italiani dal cuore d'oro”. Anche le statistiche citate si riferiscono alle carceri americane dell'inizio del '900.
Lo scopo di questo parallelismo è mostrare come qualsiasi retorica razzista si muova sempre seguendo gli stessi binari: la differenza e la paura. Sottolineare la differenza tra noi e loro rende più semplice de-soggettivare questi individui per considerarli come un insieme indistinto di esseri che, come cani randagi, sono guidati dalla fame e dall'istinto. Quando si parla di flussi migratori non vi è mai spazio per la singolarità umana. Ecco allora che scatta la paura, fomentata dalla perenne emergenza, che ci permette di combatterli, di cacciarli come invasori. O noi o loro. Non importa affatto chi siano loro. Nella vita e nella morte queste persone scompaiono, rimangono, spesso, senza nome e senza patria.
La propaganda politica razzista ha la capacità di applicare la stessa retorica a qualsiasi popolazione, indistintamente. Se negli anni '90 erano gli albanesi il vero problema per la società italiana, pochi anni dopo sono diventati i musulmani, poi i rom e i rumeni (troppo difficile distinguerli) ora i profughi nord africani. La sicurezza delle nostre strade, delle nostre abitazioni e delle nostre donne è perennemente minacciata da popoli barbari, che come in una rievocazione dell'Impero Romano, si gettano su Roma per saccheggiarla. Nel frattempo, però, i reati in Italia continuano, fortunatamente, a diminuire. Una cosa hanno in comune tutte queste popolazioni: hanno attraversato e vissuto il disagio e la mancanza di riconoscimento come esseri umani. Esattamente come gli italiani che cercarono fortuna il secolo scorso.
La propaganda razzista si fa ogni giorno più forte e si infiltra in ogni strato della società. Arriva da destra ma viene raccolta in parte anche dalla sinistra, o da quello che ne resta. La retorica razzista mente, racconta falsi miti e leggende metropolitane per permettere all'odio di spandersi più rapidamente. Non pensate che si stia esagerando. Gli atti di razzismo denunciati (verbali e fisici) sono passati da 156 nel 2011 a 998 nel 2014 (“Terzo Libro bianco sul razzismo in Italia” Rapporto dell’associazione Lunaria.)

                                       

L'Europa si impegna e promette soluzioni mentre contemporaneamente mette in atto politiche sempre più restrittive alle frontiere. Inoltre è bene ricordare che quest'invasione in atto in Europa è molto diversa da come la raffiguriamo. I primi Paesi al mondo per numero di rifugiati accolti non sono i Paesi più sviluppati, ma sono gli Stati al confine di Afghanistan e Siria (Pakistan 1,6 milioni, Libano 1,1 milioni, Iran 982.000, Turchia 824.000 e Giordania 736.000) seguiti dai Paesi limitrofi a Sudan e Sud Sudan (Etiopia 587.000, Kenya 537.000, Ciad 454.000 e Uganda 358.000). Ad esempio, in Libano ci sono 247 rifugiati ogni 1000 abitanti, mentre in Giordania 144. Per avere un’idea è come se l’Italia in proporzione ospitasse dagli 8,5 ai 15 milioni di rifugiati.

Ancora una volta ci si rifiuta di affondare alla radice dei problemi per provare a risolverli, si rimane sulla superficie cercando di cogliere solo la prima impressione.
È più facile salire su una ruspa che combattere il lavoro nero e il caporalato, è più facile attaccare gli immigrati costretti a fuggire dai loro paesi in guerra piuttosto che fermarsi a riflettere su chi, di quelle guerre sia la causa. Inoltre, mentre da una parte la politica incassa voti con la retorica nazionalista e razzista, dall'altra il lato nero e nascosto della stessa politica costruisce un mercato “più redditizio della droga” sullo sfruttamento degli stessi migranti che dice di voler cacciare.

Sembra assurdo, nel 2015, ritrovarsi ancora a dover combattere il razzismo. Come se migliaia di anni di storia, di violenze e di atrocità non abbiano intaccato la presa che il razzismo ancora ha sulla cultura europea, e occidentale, a cui proprio gli stessi razzisti spesso si richiamano. Non serve a nulla mostrare le contraddizioni, le menzogne e le idiozie su cui il neo nazionalismo poggia le proprie basi ed è anche controproducente addurre la crisi economica, che ha colpito l'Europa, come la causa dell'aumentare del sentimento xenofobo e nazionalista, quasi ne fosse una giustificazione o, altresì, gli immigrati fossero la causa della crisi.
L'unica causa del razzismo risiede nell'ignoranza. Ignoranza di cui la propaganda si nutre per alimentare uno stato di generale indifferenza e mancanza di umanità. Tuttavia non è sufficiente la cultura, l'insegnamento, il ragionamento e la dedizione per sradicare il razzismo perché “La persona razzista non prova il bisogno di giustificare le sue opinioni e i suoi giudizi. Ha delle certezze, si costruisce delle evidenze indiscutibili, delle verità non contestabili.(Tahar Ben Jelloun, “Il Razzismo spiegato a mia figlia. Nuovi razzismi in Italia”).

È possibile, quindi, eliminare una volta per tutte lo spettro razzista? Mi ritrovo ad essere pessimista a riguardo. La forza del razzismo è che non invecchia. Crea autonomamente nuovi bersagli contro cui scagliarsi utilizzando sempre lo stesso linguaggio e lo stesso sistema di pensiero. Non credo sia sufficiente, come alcuni ritengono, semplicemente richiamare la solidarietà come nuovo cardine della nostra civiltà, o l'amore, o ricercare un principio comune di umanità condivisa. È necessario che i nostri sforzi si concentrino sulle aree di crisi più che sulle frontiere, è necessario fornire la possibilità a queste persone di mettersi in salvo mantenendo come priorità la vita umana. Inoltre, bisogna mettere in pratica strategie di integrazione più profonde che permettano a diverse culture di convivere e che pongano la cittadinanza non più come un privilegio ma un diritto a tutti gli effetti.




A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.”
P. Levi

giovedì 4 giugno 2015

IL MATRIMONIO OMOSESSUALE E LA SCONFITTA DELLE LIBERTÀ

“Una sconfitta per l'umanità”. Queste sono le parole del Cardinale Parolin, segretario di stato vaticano. A cosa si starà riferendo vi chiederete? All'ennesima distruzione di opere d'arte da parte delle bestie dell'Isis? A un altro scandalo di pedofilia all'interno della Chiesa? Oppure al disastro ecologico californiano? Parole così forti saranno per forza indirizzate verso qualche evento non solo catastrofico ma quantomeno drammatico. Uno di quegli eventi che mette in dubbio l'esistenza stessa di una “natura umana” che dovrebbe distinguerci dagli animali.
Fino al 1993, in Irlanda, era un reato essere omosessuali. Ventidue anni dopo, sempre in Irlanda, grazie ad un referendum popolare le persone dello stesso sesso possono sposarsi.
È questa la grande sconfitta. Che un gruppo di persone, discriminate sulla base di un pregiudizio, possano essere equiparate giuridicamente agli altri. Che sia concesso ad alcune persone di avere una scelta su cosa fare della propria vita senza ledere nessuno.
Queste parole, oltre a colpire per la loro durezza, sottolineano in maniera chiara la visione ancora profondamente distaccata dalla realtà che presentano le elitè cattoliche. Non stiamo parlando di un prete di campagna ma del segretario di Stato vaticano.

Quello che è avvenuto in Irlanda è qualcosa di eccezionale. Innanzitutto per la forma. È la prima volta, infatti, che una decisione di questo tipo viene affidata ad un referendum popolare. La seconda cosa che colpisce è come questo referendum non abbia, come ci si poteva aspettare, opposto conservatori credenti a laici progressisti. All'opposto, è riuscito a portare allo scoperto una corrente di credenti progressisti che riescono a coniugare la propria fede cattolica con il diritto alla libertà.
Inoltre è importante sottolineare come ciò sia ancora più significativo proprio perchè è avvenuto in Irlanda, non certo la patria dei diritti civili e del progressismo. Un paese dove l'aborto è sostanzialmente ancora vietato, dove il divorzio esiste solamente dal 1997 e, come già detto, dove fino al 1993 esisteva il reato di omosessualità. Dovremmo quindi gioire per quello che è successo augurandoci che rappresenti una svolta perchè anche l'Irlanda si allinei agli altri paesi europei. Invece c'è ancora chi se ne rammarica, coloro che si ostinano a rifiutare di comprendere la contemporaneità continuando, ciecamente, ad inseguire le suggestioni di un mondo che, anche ammesso sia mai esistito, ormai non esiste più.

L'unica sconfitta per l'umanità è la continua negazione delle libertà individuali che avviene quotidianamente in paesi progressisti e democratici come quelli europei. Migliaia di cittadini omosessuali sono spesso costretti a ricorrere a scappatoie legali o a spostarsi in altri Stati per poter accedere al diritto di scegliere liberamente come vivere la propria vita.
La chiesa cattolica si rende portavoce del matrimonio come se fosse qualcosa che le appartiene, come se per qualche ragione, spirituale o storica, avesse il diritto di governare questa istituzione. (Ovviamente questo discorso è valido per quasi tutte le confessioni religiose). Tuttavia il matrimonio non è un'istituzione cattolica, né tantomeno cristiana. Il matrimonio è presente in pressochè tutte le culture in forme diverse, più o meno complesse, che rispecchiano diversi modi di aggregazione familiare. Nessun cattolico si permetterebbe mai di definire il matrimonio poliandrico in uso presso alcune popolazioni tibetane, oppure la famiglia “fraterna” dei Na e dei Nayar come “una sconfitta per l'umanità”.

Continuare a negare le libertà individuali nel nome di un principio religioso è un segno di ottusità e di paura. Paura verso ciò che non si conosce, paura verso ciò che riteniamo sbagliato; paura per ciò che non comprendiamo o che peggio fingiamo di non comprendere. Cercando di impedire una libera scelta a persone che non la pensano come noi, in questo caso sposarsi o non sposarsi, si commette una violenza che non può essere giustificata da nessun supporto ideologico. Il termine violenza non è casuale. Un atto violento non è necessariamente accompagnato da un'azione di tipo fisico, molto più spesso si esercita come un atto di potere arbitrario sugli individui. E, in questo caso, voler negare la possibilità a due persone di sposarsi in nome di un arcaica concezione della famiglia rappresenta un abuso che nessuno Stato democratico dovrebbe poter tollerare.

Non si tratta, in questo caso, di criticare la logica cristiana che vorrebbe impedire, a volte anche negare, l'esistenza dell'omosessualità.
Ciò che vorrei fare è spingermi oltre. Il rifiuto del matrimonio omosessuale non dovrebbe avere nulla a che fare con la religione proprio perché il matrimonio è in prima istanza un'istituzione umana culturale, non religiosa. L'opinione, perché di opinione si tratta, o il continuo richiamo al retaggio culturale europeo non dovrebbe avere nessun valore all'interno di un dibattito sui diritti. Non perchè la fede cristiana non sia degna di parteciparvi ma perché fa riferimento ad un sistema di valori e diritti inaccettabile per qualsiasi stato si voglia definire moderno.


Riconoscere che il mondo è differente da come lo vorremmo non significa rinunciare a cambiarlo. Ed essere convinti della correttezza del proprio pensiero, del proprio credo, non deve mai condurre ad imporre quel credo agli altri.
Le politiche repressive della chiesa hanno sempre tratto le conseguenze opposte a ciò che ricercavano. Non è più possibile continuare a fingere che il mondo non stia cambiando ed è necessario, per la sopravvivenza stessa della Chiesa, che i diritti entrino a far parte dell'agenda vaticana, i diritti di tutti.

Quando arriverà in Italia una legge simile? È difficile da ipotizzare. Nonostante l'Italia non abbia radici cattoliche particolarmente profonde, il Vaticano continua ad esercitare una pesante influenza politica e nonostante le parole di Papa Francesco, “chi sono io per giudicare un gay?”, la chiesa non sembra ancora pronta ad abbracciare un principio liberale di uguaglianza e di libertà. Inoltre l'imbelle destra italiana “non sà andare a destra senza finire nel manganello” continuando, così, ad impastarsi la bocca di ideali protofascisti e tradizionalisti.
Dopo il successo del referendum Irlandese c'è già chi propone la stessa soluzione anche in Italia. Non credo sarebbe la soluzione corretta. Quando si parla di diritti è sempre un grande rischio lasciar decidere “alla pancia” della gente. È la politica che deve avere il coraggio, la lungimiranza, di compiere scelte che possano essere anche invise alla maggioranza ma, tuttavia, corrette. Scelte compiute in nome di un principio liberale che non ha bandiere politiche o religiose.

Putroppo sembra che coraggio e lungimiranza non siano vocaboli che si addicano alla nostra classe dirigente, proprio per questo, ci toccherà aspettare ancora.


“Prima che una scelta ideologica, quella liberale è una scelta di civiltà: nel senso che ha diritto a considerarsi e ad essere considerato liberale chiunque rispetta le opinioni diverse ed anche opposte alle sue. Ecco perché si può essere liberali anche militando sotto altre bandiere: quelle per esempio socialiste o cattoliche: basta che i loro militanti non pretendano di essere depositari di Verità assolute che escludono tutte le altre e d' imporre quella propria con gli strumenti del potere: la censura e il resto. Ecco il punto in cui il liberalismo si differenzia dalla democrazia che con la sua religione della maggioranza rischia molto spesso di diventare, in nome di essa, dispotica. L' oltranzista della democrazia crede che il numero sia il metro di tutte le cose e abbia il potere di rendere buone anche quelle cattive. Il liberale, quello vero, non rinunzia affatto a giudicarle secondo il suo metro morale, anche se riconosce il diritto della maggioranza a realizzare le sue volontà.”
I. Montanelli


venerdì 29 maggio 2015

CLUB DEI CERVELLONI - SECONDO DILEMMA SEMISERIO

Ricordo quel giorno con grande chiarezza. Eravamo in cerca di un nuovo dilemma da risolvere. E le domande si affollavano confuse nelle nostre menti senza che fossimo in grado di trovare qualcosa che valesse la pena di indagare. Eppure la risposta, o meglio la domanda, era proprio sotto i nostri occhi. E lo era stata per tutta la nostra vita.
Se ne stava lì, a fissarci dal basso, e noi lo utilizzavamo senza mai chiederci il perché. Senza comprendere quanto fossimo fortunati. Il BIDET.
Perchè  "Il Bidet", che è una parola francese, proprio dai francesi non viene utilizzato? Perché se lo hanno inventato lo hanno poi, inevitabilmente abbandonato?

Ebbene sì, il Bidet è un'invenzione francese. E letteralmente significa “piccolo cavallo” perché è la posizione che si assume accovacciandosi sopra di esso. Questo meraviglioso oggetto fa la sua apparizione sulla scena nel 1700, probabilmente inventato da Christophe Des Rosiers. Come ogni genio, anche Des Rosiers non fu subito compreso: il bidet, nel 1739 veniva pubblicizzato come “custodia per violino in porcellana con quattro gambe”, oggetto fondamentale nella casa del gentiluomo aggiungiamo noi.
Il riconoscimento arrivò presto, e a Versailles se ne potevano contare più di 100, nelle sale da bagno e da letto. Tuttavia presto caddero in disuso e vennero rimossi data l'avversione per la pulizia dei sovrani francesi. Si dice che il Re Sole si sia fatto il bagno, in tutta la propria vita, solo tre volte. Effettivamente il bidet era l'ultimo dei suoi problemi.
Successivamente il bidet iniziò a diffondersi nei bordelli e questo, probabilmente, influì anche sulla sua caratterizzazione come oggetto peccaminoso.



La sua introduzione in Italia si deve alla lungimirante Regina di Napoli, Maria Carolina d'Asburgo Lorena, che nella metà del '700 lo volle nella sua camera da letto nella Reggia di Caserta. Nell'800 all'arrivo dei funzionari sabaudi che presero possesso della Reggia, facendo l'inventario lo classificarono come “oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra”.
La diffusione e l'amore tutto italiano per il bidet si deve quindi ad una coraggiosa Regina che infischiandosene del fatto che quell'oggetto fosse considerato quantomeno ambiguo e utilizzato solamente dalle prostitute, riuscì a superare i pregiudizi dei benpensanti.


La morale di questa storia è quindi molto semplice: non farti mai condizionare da ciò che gli altri potrebbero pensare di te. Spesso sono solo dei puzzoni.

domenica 24 maggio 2015

IMMIGRAZIONE : LA POLITICA DELL'EMERGENZA

Il più grande problema che i governi europei si trovano oggi a dover affrontare non è quello della crisi economica, né tantomeno i capricci del Regno Unito, o l'avanzata dell'esercito del califfato. Il problema più complesso è quello dell'immigrazione, del riuscire a gestire, e controllare, migliaia di persone che ogni giorno cercano la fuga e inseguono la disperata speranza di poter vivere una vita degna di questo nome. I governi occidentali sembrano non riuscire a trovare nessuna soluzione per risolvere questo problema e sembrano continuare a mettere in secondo piano la vita delle persone. L'immigrazione, in questi termini, è un problema squisitamente politico e, anche se può essere strano a dirsi, i governi sono sempre meno abituati a trattare problemi Politici.

I territori africani, soprattutto le regioni dell'Africa centrale, sono sempre state considerate e utilizzate come una fonte di materie prime a cui gli stati occidentali potevano accingere liberamente. Dopo la fine del colonialismo abbiamo assistito alla presa di potere da parte di attori che agiscono all'interno del mercato svincolati dal potere statale. Questi organismi hanno avuto modo di prendere possesso, approfittando della debolezza del sistema politico locale africano, dei mercati, diventando determinanti sia per la sfera economica sia per quella politica. Il sistema che si basa sull'egemonia della logica economica ha permesso alle multinazionali di arricchirsi in maniera sorprendente. Spolpando letteralmente gli stati africani dall'interno è stato loro possibile arrivare a fatturare molto più del PIL degli stessi paesi da cui traevano ricchezza. Soprattutto a partire dagli anni '60 del Novecento abbiamo assistito all'affermazione, su scala mondiale, del paradigma neoliberale. Mentre nel liberalismo la sfera politica e quella economica risultano sempre distinguibili, nelle logiche e nelle pratiche della «condizione neoliberale» ogni decisione sul governo delle vite passa attraverso il filtro della razionalità economica, rendendo inutile e impossibile la distinzione tra economia e politica.

Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte”

Ciò che sta accadendo nel territorio africano, le incertezze politiche e i problemi sociali che governano queste zone, viene spesso letto come una conseguenza, quasi endemica, del tribalismo che ancora affligge il perennemente arretrato continente africano. Questa visione risulta essere afflitta da un evidente pregiudizio eurocentrista oltre a essere decisamente inadeguata per comprendere realmente la situazione della politica africana. Leggendo in continuità la politica coloniale e quella post-coloniale si perde l'immagine dell'Africa tribale, incapace di darsi strutture politiche stabili e durature, a causa di un'inadeguatezza politico culturale che attraversa tutto il continente. Questa instabilità conduce alla formazione di gruppi di potere, spesso di etnie differenti, che si combattono tra loro lasciando terreno fertile, a causa del vuoto politico e amministrativo, ai grandi capitali internazionali. Applicando la nozione di biopolitica è possibile comprendere la situazione africana nella sua complessità, senza banalizzarla, ed evitando di cadere nei pregiudizi razziali del colonialismo. È possibile, quindi, leggere il territorio africano come un “laboratorio biopolitico” nel quale vengono sperimentate nuove forme di dominio ai danni degli strati più bassi della popolazione. Le élite dominanti permettono l'ingresso di capitali stranieri svendendo le risorse indigene e per gestire le numerose crisi umanitarie, così facendo accumulano enormi ricchezze che vengono suddivise nel gruppo che sostiene il potere centrale. La violenza che spopola all'interno della politica africana non è un fenomeno di arretrato tribalismo ma, tutt'altro, un fenomeno profondamente moderno, che diventa il modo migliore per adattarsi ai flussi di denaro che attraversano la regione.
Questa instabilità crea non solo flussi di denaro ma, soprattutto, flussi di persone che combattono per la propria sopravvivenza. L'enorme numero di persone in cerca di salvezza diventa un problema per l'Europa che non è più in grado di gestire e controllare flussi di questo tipo e dimensioni a causa, anche, dei forti movimenti migratori che avvengono all'interno dell'Europa stessa.


È in tale scenario che si può comprendere al meglio la portata non più biopolitica delle politiche nel territorio africano bensì tanatopolitica. Se la biopolitica è la strategia di gestione delle vite la tanatopolitica, al contrario, è la gestione della morte. Ritorna il diritto di “far morire o lasciar vivere” che si credeva superato dopo la fine del nazismo che stabiliva la differenza tra vite da salvaguardare e vite indegne di essere vissute.
La strategia messa in atto dai governi europei è molto semplice: inquadrare il problema delle migrazioni nel Mediterraneo come un'emergenza. Un evento che va affrontato con istituzioni speciali che vanno al di là della politica per radicarsi nel regime dell'eccezione. Ciò permette a queste presunte emergenze di essere affrontate senza che siano poste domande su chi sia il responsabile di questi eventi, e su come possano essere evitate in futuro. Non vi è il tempo per porsi tali domande. È un'emergenza.
La maggior parte di quelle considerate emergenze umanitarie non sono, in realtà, emergenze in senso stretto, causate cioè da eventi improvvisi e imprevedibili. Sono, in effetti, la diretta conseguenza di politiche neoliberali. Le morti nel Mediterraneo non sono eccezionali ma sono frutto di precise politiche comunitarie e della violenza strutturale cui si accennava sopra.
Le strategie di intervento umanitario gestite in regime di eccezionalità sono quindi strategie di potere che risultano avere un duplice scopo: da un lato la volontà di mantenere lo status quo, ovvero far in modo che nulla realmente cambi; dall'altro, eliminare ancora una volta la possibilità di un intervento politico concedendosi la licenza di agire in perenne eccezionalità.


Quali sono quindi le possibili soluzioni a questo problema? La soluzione è una soltanto. Semplice quanto, in realtà, enormemente complessa. Bisogna mettere fine a pratiche securitarie atte semplicemente a preservare i confini e a difenderci dall'invasione. Bisogna avere la forza di opporsi al regime di emergenza per aprire spazi di confronto politico che riescano a mettere in questione la gestione dei confini e, soprattutto, il valore della vita umana. L'emergenza, per sua natura, ci spinge ad agire, senza far domande (Riflettete sui titoli dei giornali dopo la strage del 19 Aprile. Un turbinio di agire, agiamo, facciamo, ora, adesso...). Bisogna aver la forza di rifiutare l'analogia tra l'azione e l'emergenza e a volte semplicemente comprendere come il pensiero possa, e debba, diventare azione. Credo sia ancora possibile creare uno spazio di discussione politica che possa cambiare il modo attraverso il quale leggiamo la realtà per tornare a porre l'essere umano, non più come mera vita, al centro di un progetto politico globale.



Oggi siamo quello che siamo, non perché nella preistoria non ci fossero i migranti, ma perché non c’era nessuno a fermarli.”

domenica 12 aprile 2015

LA FOBIA DEL COMPLOTTO

L'aereo della Germanwings recentemente precipitato sulle montagne francesi non è stato intenzionalmente fatto schiantare dal pilota, Andreas Lubitz, ma è stato abbattuto da un missile. Lo sapevate? L'attentato alla sede di Charlie Hebdo non è stato compiuto dalla furia omicida e dal fanatismo di alcuni squilibrati bensì è frutto di un piano dei governi occidentali per rafforzare l'odio nei confronti del mondo islamico in vista di una futura azione militare. Lo sapevate? E lo sapete che Barack Obama in realtà non è americano, ma ha falsificato il proprio atto di nascita per potersi infiltrare all'interno del governo americano? In realtà è un comunista o un rettiliano, a voi la scelta.
Potrei riempire intere pagine di questo blog elencando tutte le principali teorie complottiste degli ultimi anni, passando dalle torri gemelle, ai big pharma, ai Kennedy, a Elvis e Paul McCartney senza dimenticare alieni, scie chimiche e i sionisti.

Non è mio interesse analizzare nei dettagli il contenuto di queste teorie argomentando, a favore o contro, per cercare di dimostrarne la falsità o la fondatezza. In parte perché la maggior parte di queste teorie sono semplicemente sciocchezze, e in parte perché ciò che mi interessa è approfondire un interrogativo che sta suscitando discreto interesse in ambito sociologico e psicologico. Perché crediamo così facilmente ai complotti?

Oramai qualunque evento di cronaca, qualsiasi evento eccezionale, violento o naturale che sia, viene immediatamente accompagnato da una versione “non ufficiale” che si oppone a tutte le ricostruzioni della stampa e dei media. Queste teorie non ufficiali, alcune molto fantasiose e divertenti altre più realistiche, attraggono e convincono immediatamente milioni di persone senza dover nemmeno portare l'onore della prova.


Quando parlo di milioni non pensate che stia esagerando. Sono finiti i tempi in cui il complottista era un hippie squinternato in qualche baracca dell'Arizona. Il numero delle persone che crede ai complotti è realmente molto più alto di quello che pensiamo. Secondo una ricerca dell'Università di Miami, condotta da J. E. Uscinsky e J. M. Parent, circa un terzo degli americani, ad esempio, crede che l'11 settembre sia stato organizzato dal governo americano o che Obama abbia realmente falsificato il proprio certificato di nascita. Queste ricerche hanno anche evidenziato come queste teorie riescano ad attrarre persone di diversa estrazione sociale e culturale. Anche il credo politico risulta piuttosto indifferente. Le persone di sinistra sono più inclini a credere che i media e i partiti siano l'espressione della volontà di potenti corporazioni segrete e capitaliste; i conservatori, invece, ritengono che ci sia una cospirazione giudaico-comunista che vuole impedire il predominio americano. Inoltre se si crede ad un complotto si è portati a credere anche a tutti gli altri.

Perché quindi ci crediamo? Alcuni ritengono che sia il più banale dei meccanismi di difesa. Non riuscendo a trovare una spiegazione per gli eventi così imprevedibili e spaventosi della realtà ipotizzo un sistema, segreto, che renda ragione delle proprie azioni in maniera (occidentalmente) razionale: il potere o il denaro. Altri pensano sia frutto dell'immaginazione e della fantasia di qualche squilibrato che, sfruttando le paure e l'ignoranza delle persone, riesca a lucrare su questi argomenti.

Quella che ritengo essere una spiegazione del fenomeno è che esso non sia altro che la propagazione di un sistema narrativo che è figlio del nuovo, e piuttosto recente, movimento anti-scientista (di cui parlerò prossimamente). Queste teorie, infatti, lungi dal fornire prove accettate dalla comunità scientifica internazionale fondano la loro retorica e traggono la loro forza proprio sul rifiuto, da parte della comunità scientifica, delle stesse teorie e dall'opposizione che conseguentemente ne nasce. Inoltre permettono, a chi legge gli articoli, di porsi in una posizione di autoaffermazione intellettuale utilizzando come strumento retorico l'opposizione con gli stolti, i “dormienti” di cui la storia della filosofia è piena. In altre parole, se non la pensi come loro diventi automaticamente una vittima, o un complice, del sistema complottistico.


Molte di queste teorie si fondano sull'assunto, piuttosto generalista e storicamente non troppo ricorrente, che molte scoperte scientifiche furono ritenute false al momento della loro prima pubblicazione. Il paradosso si crea quando questi individui aspirano a entrare a far parte, rivoluzionandolo, proprio del sistema di credenze che criticano e che ritengono responsabile del male all'interno della società.
Troppo spesso le teorie cospiratorie incorrono in errori macroscopici. È molto comune individuare una sorta di retorica dell'argomento perverso, teorizzata da Hirschmann, che permette loro di individuare i nemici, e le conseguenze, che a priori già ricercavano. Questo spiega perché siano sempre i servizi segreti Russi, Americani o Israeliani i colpevoli. Mai una volta che siano gli svedesi! Un altro punto molto controverso di queste teorie è la difficoltà con cui complotti di queste dimensioni dovrebbero rimanere segreti. George Simmel, ne “La Sociologia del Segreto”, ha dimostrato come un segreto può essere mantenuto da un numero molto ristretto di persone, al massimo qualche centinaio. Un segreto che coinvolge migliaia di persone è statisticamente impossibile rimanga effettivamente tale. Inoltre tutte queste teorie mostrano un enorme sopravvalutazione della capacità di controllo, comprensione e previsione umana. Ogni evento viene interpretato a posteriori, e successivamente portato come prova, diventando parte di una catena di eventi ininterrotta che dovrebbe condurre, senza alternativa, ad un evento anche molto distante nel tempo. Nessun uomo è in grado di prevedere il futuro, specialmente se questo include le azioni di altre persone.

Criticare quello che Eco definisce come “fobia del complotto” non significa affermare che non possano esserci complotti, che nel corso della storia si sono sempre verificati, né tantomeno ritenere che non esistano entità, politico economiche, che perseguono indiscriminatamente i loro interessi. E non significa rinunciare a farsi domande accettando per vero tutto ciò che i media e i governi ci propinano. Criticare la fobia del complotto significa sottolineare ancora una volta l'importanza di un pensiero critico che abbia in primo luogo la necessità di sviluppare un metodo che sia coerente, preciso, che non sia costretto a ricorrere a fantasiose congetture per dimostrare la propria tesi. Un metodo che sia, in poche parole, semplicemente scientifico.